Seminario “Integrazione Direttive europee acqua e natura”

 

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Che impatto hanno avuto sulla pianificazione territoriale le direttive europee su acqua e natura? E’ possibile raggiungere almeno in parte un approccio integrato all’applicazione delle direttive? Sono questi alcuni dei quesiti posti nel corso del seminario che si è svolto a Roma il 6 luglio 2016, organizzato da Comunità Ambiente, dall’associazione Gruppo 183 e dalla Regione Lombardia, con il sostegno della Commissione europea.

All’evento hanno partecipato la DG Ambiente della Commissione europea, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), le Regioni che stanno realizzando progetti integrati, le Autorità di bacino, università, associazioni ambientaliste, italiane e spagnole, sindacati, società private che offrono servizi in questi settori, ed esperti provenienti da varie parti d’Italia.

Di seguito una breve sintesi degli interventi ed i link per seguirli in video.

 

Obiettivi dell’iniziativa

Ad introdurre gli obiettivi dell’iniziativa sono Michele Zazzi, dell’Università degli studi di Parma, coordinatore del Gruppo 183 e Fabio Attorre, dell’università di Roma La Sapienza.
Zazzi ricorda che quando fu fondata da Giuseppe Gavioli, l’associazione aveva come finalità l’applicazione della legge 183, sul risanamento delle acque e la difesa del suolo.
“Pur non essendoci più la legge 183, inglobata nel cosiddetto Testo Unico Ambientale,” ha detto Zazzi “quell’interesse è rimasto sempre uguale, anche oggi, quando quei temi sono divenuti argomento di dibattito all’interno della comunicazione quotidiana. Oggi occorre fare un ulteriore passo. Abbiamo raggiunto un obiettivo, l’Unione europea prima e l’Italia dopo, affrontando temi settoriali: crediamo che sia ora importante fare un ulteriore passo verso l’integrazione delle politiche, degli strumenti e delle azioni.”
C’è la sensazione, dice Zazzi in un secondo breve intervento, che negli ultimi anni la capacità delle autorità competenti, europee e italiane, e della produzione del sapere, delle relazioni e, talvolta, delle azioni concrete sul terreno, è notevolmente aumentata. Oggi i progressi della comunità scientifica e delle amministrazioni pubbliche, devono essere affiancati da un processo parallelo delle associazioni ambientaliste, che stabilisca una forte collaborazione con la società variamente organizzata e rappresentata. É la sintesi di questi due contributi che assicurano che lo stato degli habitat può davvero migliorare. Altrimenti è difficile capire perché, con la conoscenza dettagliata che si ha oggi degli habitat la loro condizione continua a deteriorare. Ovviamente non è stato raggiunto l’obiettivo prefissato ma solo una prima tappa del percorso.
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L’integrazione della direttiva quadro sulle acque e le direttive Uccelli e Habitat e in generale delle politiche sull’ambiente, è fondamentale secondo Fabio Attorre, dell’Università di Roma-La Sapienza, intervenuto dopo Zazzi, perché senza l’integrazione gli interventi sull’ambiente sono meno efficaci e il settore risulta essere molto poco ascoltato, soprattutto in un periodo di crisi economica. “Se si tagliano risorse, si tagliano sull’ambiente, con la motivazione che non si è in grado di quantificare, in maniera precisa, lo stato di conservazione degli habitat, della biodiversità e cosa significano i valori di riferimento con i quali misurare l’efficacia degli interventi”. Per essere incisive le direttive acqua e natura devono avere anche una ricaduta in termini sociali ed economici.
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L’integrazione delle direttive in Italia

“Nel settore ambientale tutto è interconnesso” sostiene Gabriela Scanu, della Segreteria tecnica del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che illustra il lavoro svolto ad oggi su questi temi dalle direzioni generali per la salvaguardia del territorio e delle acque (STA) e per la protezione della natura e del mare (PNM) del ministero. Per promuovere una maggiore connessione tra i vari uffici competenti il ministero ha deciso di costituire un gruppo di lavoro con rappresentanti della DG STA, della DG PNM, della segreteria tecnica, del dipartimento difesa della natura e della strategia marina dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ISPRA, ed un folto gruppo di esperti, che hanno lavorato ad un documento di riferimento ai piani di gestione per favorire l’integrazione tra le politiche delle acque e della natura. Il documento è aperto a commenti e suggerimenti.
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Irene di Girolamo, responsabile tecnico-scientifica per la tutela del Mare del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, ricorda che il ministero lavora da anni sulla strategia europea per l’ambiente marino, una direttiva recepita in Italia nel 2010, che comprende tutto quello che riguarda gli ambiti marini e quanto arriva dalle acque dolci al mare, in applicazione della Direttiva Quadro sulle Acque e quello delle specie marine delle acque di transizione, in applicazione della direttiva Habitat. L’intento della direttiva è raggiungere nel 2020 un buono stato ambientale per le acque marine. In Italia nel 2015 sono stati definiti i programmi di monitoraggio. Ora si sta lavorando sul piano di monitoraggio delle acque costiere e di tutte le aree marine protette nazionali, che può fornire un quadro- anche se solo un quadro di background, perché sono disponibili pochissimi dati sugli ambienti marini- utili a definire entro pochi mesi i programmi di governance.
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Laura Casella (ISPRA) espone brevemente il lavoro passato e quello in corso relativo al monitoraggio degli habitat secondo l’articolo 17 della direttiva Habitat. Per permettere alle Regioni e alle Province Autonome di realizzare una raccolta dati armonizzati per mezzo di protocolli tecnici standardizzati, e facilitare il report di valutazioni compatibili, il MATTM ha promosso la realizzazione di un manuale nazionale per il monitoraggio di specie e habitat. La realizzazione del manuale, coordinata dall’ISPRA, è stato portato avanti con il supporto delle principali società scientifiche italiane e in stretta collaborazione con Regioni e Province Autonome. La presentazione del volume è prevista nell’ottobre 2016, anche se rimangono ancora alcune questioni aperte (es: stima dei valori di riferimento favorevoli- VRF) ancora in discussione a livello europeo.
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Indicazioni tecniche per l’integrazione delle direttive

Susanna D’Antoni (ISPRA) ricorda che la Direttiva Quadro sulle Acque prevede in vari punti la necessità di integrazione, in particolare agli articoli 4.1c, 8.1, 11, secondo il principio di un approccio ecosistemico.
L’integrazione, dice D’Antoni, è un processo molto complesso ma utile poiché presenta diversi vantaggi: ottimizzare l’uso dei dati disponibili, incrementare la conoscenza, valutare la scala a cui intervenire, valutare l’efficacia delle misure, ottimizzare i costi.
ISPRA lavora da diversi anni su questi temi e, grazie anche al lavoro svolto all’interno del tavolo tecnico dedicato alle zone umide, ha prodotto due documenti: il rapporto 107/2010 sulla sinergia fra le tre direttive- uccelli, habitat e acqua- che effettua un’analisi dell’integrazione degli strumenti di pianificazione e contiene una lista di habitat e specie legate agli ambienti acquatici e il rapporto 153/2011, sui contributi per la tutela della biodiversità, che presenta un quadro sullo stato e la distribuzione delle zone umide. Per l’integrazione degli obiettivi di tutela, sostiene D’Antoni, è importante far riferimento agli elenchi delle specie e degli habitat acquatici, ai dati di monitoraggio dello stato di conservazione di specie e habitat, ai dati su pressioni e impatti sui servizi ecosistemici dei corpi idrici, inclusi gli effetti dei prodotti fitosanitari.
Dal 2009 ISPRA sta portando avanti un progetto pilota nella Riserva naturale di Nazzano – Tevere Farfa per l’attuazione dell’integrazione fra le tre direttive. Fra i risultati raggiunti si segnala che tutti gli indicatori della Direttiva Acque contengono informazioni utili alla valutazione dello stato di habitat e delle specie acquatiche e che le informazioni derivanti dal monitoraggio delle macrofite sono utili alla valutazione dello stato degli habitat Natura 2000.
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Lo stato dell’arte nell’attuazione delle direttive

Francesc La Roca, dell’associazione “Fundacion Nueva Cultura del Agua” descrive l’esperienza dell’Osservatorio delle politiche dell’acqua come laboratorio di co-produzione di conoscenza e partecipazione cittadina in Spagna. I principali elementi di cambiamento nella politica dell’acqua in Spagna sono spinte dalle preoccupazioni ambientali, dalle opposizioni locali alle grandi opere idrauliche e al modo in cui sono distribuiti i costi, dalle conseguenze della siccità del 91-94 e dalle restrizioni sull’approvvigionamento urbano e le perdite nella rete idrica. L’alleanza tra accademia e movimenti sociali ha prodotto tre principali momenti di sintesi: Saragozza nel ’98, il Primo Convegno Iberico sulla pianificazione e gestione dell’acqua; Porto nel 2000, il Secondo Convegno con un approccio transnazionale; Saragozza nel 2001 con la costituzione formale della Fondazione per una Nuova Cultura dell’Acqua (rete di ricercatori, attivisti e accademici che contribuiscono ad un lavoro complesso per la co-produzione di soluzioni). Si prevede anche un master in gestione fluviale sostenibile. L’osservatorio delle politiche dell’acqua ha espresso l’esigenza di un cambiamento profondo dei modelli di gestione. I principali risultati dell’attività sono stati: il lavoro interdisciplinare effettivo di valutazione dei Piani di bacino; il miglioramento della qualità e dell’accesso all’informazione sulla pianificazione/gestione dell’acqua (informatizzazione); lo sviluppo di reti cittadine tramite coordinamento e creazione di nuove competenze sociali; la creazione di fori alternativi di deliberazione coi professionisti e le reti cittadine. Tuttavia, il successo è rimasto limitato per la mancanza di migliori processi di partecipazione formale nella pianificazione, perché le questioni conflittuali non vengono discusse e perché c’è ancora frustrazione e sfiducia nei confronti delle amministrazioni idriche che non hanno compiuto un parallelo passo in avanti.
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Francesco Puma, segretario dell’Autorità di bacino del fiume Po, inizia affermando che nell’intervento di La Roca sono stati presentati una serie di problemi che sono presenti anche in Italia. L’Italia come la Spagna è una terra di antico uso dell’acqua che ancora oggi incide sulla possibilità di cambiare usi e dotazioni. Se c’è una differenza tra i piano europei e la pianificazione italiana tradizionale, ha detto poi Puma, è che se quella italiana è sempre vasta, e ogni comprensiva, la pianificazione europea è strategica, non affronta tutto, ma individua le criticità, le priorità, e richiede l’applicazione di un processo di monitoraggio continuo in un processo di pianificazione continuo, con delle scadenze precise ed un’analisi dell’efficienza e dell’efficacia degli interventi. Quello che impone la direttiva, ha poi aggiunto Puma, è un nuovo modello d’intervento che includa, tra l’altro: una visione del territorio come spazio strategico al cui interno è possibile conciliare gli obiettivi di coesione, equità sociale, competitività, sviluppo, salvaguardia e valorizzazione delle risorse locali e un giusto equilibrio tra economia, ecologia e società; l’uso di un linguaggio accessibile e comprensibile ai cittadini per spiegare obiettivi e strategie; una maggiore semplicità e accessibilità alle procedure decisionali, attraverso una migliore informazione sull’attività delle istituzioni. Un dialogo sistematico con i rappresentanti delle diverse autorità e con la società civile organizzata; un’assunzione di responsabilità da parte di ogni amministrazione in relazione all’elaborazione e attuazione delle politiche; efficacia e tempestività dell’intervento, con produzione dei risultati richiesti in base ad obiettivi chiari, alla riduzione del loro impatto, e se possibile, alla valorizzazione delle esperienze acquisite in passato.
Il segretario generale dell’Autorità di bacino del fiume Po ha poi elencato una serie di punti necessari per affrontare le sfide future: non ricominciare da capo, con un ritorno ad un sistema gerarchico che non ha mai funzionato, lasciando però alcune funzioni e responsabilità a livello nazionale; passare dalla pianificazione comprensiva con un piano quasi generale a scadenza temporale indefinita ad una pianificazione strategica con cicli sessennali a scadenza precisa e definita; promuovere il passaggio da: una programmazione virtuale ad una reale; da un monitoraggio amministrativo di efficienza ad uno tecnico di efficacia degli interventi; da strutture tecniche settoriali a strutture interdisciplinari integrate; da un governo di bacino ad una governance di distretto; da una politica di intervento emergenziale ad una politica di prevenzione ordinaria.
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Le nuove iniziative: piani integrati, partecipazione pubblica e citizen science

Elena Tironi, della Regione Lombardia, ha illustrato il progetto integrato co-finanziato dall’Unione Europea attraverso lo strumento finanziario LIFE+, (LIFE IP GESTIRE 2020 Nature Integrated Management) che ha come l’obiettivo di attuare una gestione integrata della rete Natura 2000 regionale, sulla base delle priorità individuate dal quadro d’azioni prioritarie (PAF). Un progetto di lunga durata, ambizioso e innovativo, che intende attivare in modo complementare alle risorse LIFE altri fondi europei, nazionali o privati, per un importo pari a € 80.000.000.
Diverse sono le azioni del progetto LIFE Gestire 2020 che integrano elementi relativi alla gestione dell’acqua. Per ciascuna di esse Tironi espone i contenuti principali, evidenziando gli aspetti d’integrazione della conservazione di habitat e specie di interesse comunitario con la gestione delle risorse idriche. Alcune delle azioni più esemplificative: integrazione delle competenze del personale che si occupa della gestione dei corpi idrici con le conoscenze relative alle necessità di habitat e specie legate agli ambienti acquatici; formulazione di modelli di governance dei siti Natura 2000 sulla base dei Contratti di fiume; ripristino della connettività ecologica attraverso la rinaturalizzazione dei corridoi fluviali e della rete irrigua; gestione dei corpi idrici in modo funzionale alla presenza di uccelli delle zone umide e agli anfibi; definizione di una metodologia di valutazione del Deflusso Minimo dei corsi d’acqua idoneo alla conservazione di specie ed habitat di interesse comunitario.
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Raul Segatori della Regione Umbria, illustra lo stato dell’arte nell’attuazione delle Direttiva Habitat e della rete Natura 2000 in Umbria. A circa 20 anni dall’avvio dei lavori con il progetto Bioitaly, dice Segatori, la situazione attuale in Umbria della rete Natura 2000 si concretizza nell’approvazione nel 2013 dei Piani di Gestione per tutti i 102 siti Natura 2000, nella designazione di quasi tutti i SIC in ZSC (attualmente il Ministero sta lavorando sulla designazione dell’ultimo SIC) e nella redazione del PAF (Quadro di Azioni Prioritarie). Il PAF individua le zone umide, di cui l’Umbria è particolarmente ricca, come una delle priorità per la tutela di rete Natura 2000. Essendo la superficie regionale rappresentata per il 90% dal bacino del Tevere, la rete ecologica regionale (RERU), di cui la RN2000 è parte integrante, riconosce nei corsi d’acqua i corridoi ecologici più importanti. La sovrapposizione delle previsioni dei piani regolatori con la rete ecologica ha evidenziato che all’interno dei siti Natura 2000 il consumo di suolo è stato molto basso, perché ambiti vincolati, mentre al di fuori dei siti la situazione è ben diversa, perché si tratta di “terra di nessuno”.
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Integrazione delle direttive: problemi e opportunità

Nicola Notaro, della direzione generale ambiente della Commissione europea, capo dell’unità che gestisce le direttive habitat e uccelli e che ha precedentemente lavorato per l’unità che si occupa della direttiva quadro sulle acque, fa sapere che a livello europeo è in corso un processo di collaborazione che cerca di avvicinare coloro che lavorano per l’attuazione della direttiva acqua e coloro che lavorano per l’applicazione delle direttive Habitat e Uccelli: un processo lanciato qualche anno fa durante la presidenza lituana dell’Unione Europea. In questo ambito ci sono state una serie di riunioni dei direttori e dei capi di amministrazioni dei vari paesi dell’Unione europea e della Commissione europea che si occupano di queste direttive e della protezione del mare. La riunione più recente ha avuto luogo nel 2015 e in questo ambito c’è stata anche una dichiarazione congiunta dei direttori che si occupano di acqua e natura e della protezione del mare.
La dichiarazione che è stata adottata è focalizzata soprattutto su tre punti che meritano attenzione e sui quali si sta lavorando: cercare di avvicinare i cicli e il contenuto del rapportaggio dei vari Stati membri alla Commissione europea. Un secondo elemento riguarda l’interesse comune nell’applicazione di queste direttive con altre politiche e quindi la necessità di creare un dialogo congiunto con i colleghi che lavorano in altri settori, per esempio nel settore agricoltura e pesca, soprattutto in relazione alla distribuzione dei fondi europei. Il terzo elemento è uno strumento pratico, una specie di guida per principianti, per diffondere la conoscenza di base delle due direttive e della strategia marina.
(Purtroppo per motivi tecnici non è stato possibile avere il collegamento video dell’intervento da Bruxelles.)

Marco Gisotti, della Green Factor, si dedica alla presentazione dei risultati dello studio sull’occupazione prodotta all’interno delle aree Natura 2000: lo stato dell’arte dei c.d. “lavori verdi” e il tipo di professionalità richieste dalla gestione delle aree protette. Sono di grande interesse i numeri degli occupati nel settore della protezione della natura: oltre il 60% della nuova forza lavoro ed il trend dentro le aree protette non è differente rispetto a quello che descrive le dinamiche in atto all’esterno. Spesso la crescita nel settore non è accompagnata da interventi di carattere pubblico: la capacità delle imprese è autonoma e nel confronto col mercato si sviluppa una metodologia più sostenibile di produzione. Alcuni studi hanno messo in relazione la quantità di denaro investito nella biodiversità con numero di nuovi occupati: 33 mila euro investiti generano un occupato in forma stabile; ogni milione di euro genera di conseguenza 1.700 posti di lavoro diretti, 280 posti di lavoro indiretti e 930 posti di lavoro indotti. Più in generale, si stima che con un miliardo di euro si potrebbero generare circa 30.000 posti di lavoro nella biodiversità. Più fonti reclamano un fabbisogno di 40 miliardi di euro per combattere efficacemente il dissesto idrogeologico (oltre 5 volte quanto stanziato nei prossimi 15 anni), che si tradurrebbero in termini occupazionali fra gli 800.000 e i 1.200.000 nuovi occupati. Questi dati possono essere utili anche dal punto di vista comunicativo/divulgativo, in quanto gli investimenti e la creazione di posti di lavoro riducono l’astrattezza che spesso sembra ammantare i discorsi sulla protezione della biodiversità o della risorsa suolo. Numerose sono le professioni competenti nella gestione della natura, osservandole spicca la loro trasversalità e l’importanza di una comunicazione transdisciplinare.
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Tavola rotonda: direttive, politiche, pianificazione

Vezio De Lucia, Urbanista, fa notare come il tema della “pianificazione” appare a molti un tema desueto, ma il gran disordine che sovrasta gli argomenti delle Direttive acque-natura, sono proprio in conseguenza del fatto che manca un vero governo del territorio, da almeno 30 anni. Fino alla metà degli anni ’80, tutti i poteri stavano nelle mani del Ministero dei Lavori Pubblici che utilizzava la legge urbanistica del ’42 e due strumenti di pianificazione: il Piano Territoriale di coordinamento e i Piani Regolatori a livello comunale. La pianificazione del territorio nel’ 72 va nelle mani delle regioni. I problemi iniziano nel 1985 quando inizia la frammentazione del governo del territorio, mai più ricomposto: la prima legge è stata la 431/1985 (Galasso) per la tutela del paesaggio, poi la 183 per la difesa del suolo, poi la 394/91 sulla tutela delle aree protette. Le 3 leggi sono state fatte in riferimento a 3 diversi livelli istituzionali (Stato-Regioni/Autorità di bacino/Ente parco), ciascuna con un suo strumento di pianificazione (Piano paesistico/di Bacino/d’Assetto). E’ mancata, prosegue De Lucia, una efficace azione di coordinamento in grado di moderare il contrasto estremo tra leggi, Piani e codici. Questo ha prodotto il dilagare e il proliferare dell’abusivismo e di norme derogatorie: mancata azione di coordinamento tra queste pianificazioni di settore. Non c’è bisogno, conclude l’urbanista, di una grande indagine per capire quanto ciò abbia aumentato il consumo di suolo: la nuova legge è una legge che renderà il problema anche più grave.
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Enrico Pugliese, dell’Università di Roma, fa un breve excursus storico dell’evoluzione dell’agricoltura in Italia. Si parte dalla Bonifica Integrale Serpieri, durante il fascismo e quindi alle grandi opere idrauliche nel meridione d’Italia. Dal dopoguerra la legislazione ha difeso la piccola azienda contadina e si sviluppa la c.d. “rivoluzione verde”, quell’agricoltura che fa passare da 1 a 9 milioni di agricoltori. La modernizzazione fa supporre che l’ambiente in agricoltura debba soffrire e così è stato fino agli anni 80-90, anni quando non si parlava del contesto ambientale. Le cose poi, spiega Pugliese, cambiano in modo imprevisto: se i termini “autoconsumo” o “km0” fino a poco tempo prima esprimevano arretratezza, da un certo momento questi indicano democrazia e progresso. Nella trasformazione in senso ecologico dell’agricoltura, il consumatore diventa portatore di istanze progressive: non vuole l’OGM, vuole mantenere colture tradizionali e si passa dal “cheap food cheap labor”, con la meccanizzazione che nei decenni precedenti aveva sostituito l’80% degli agricoltori, a nuove istanze e nuove problematiche. L’agricoltura passa cioè “dalla centralità della terra alla centralità del cibo” e i vantaggi sono la ripresa della piccola scala ed il ritorno alla vita rurale. Emergono le sfide dell’allargamento delle nicchie, della sovranità alimentare nel mercato globale. Nelle facoltà di agraria le tematiche ambientali sono ora centrali e la lotta biologica integrata si studia per davvero. Pugliese termina il suo intervento citando l’esperienza di EquoSud di Rosarno: arance biologiche con un doppio vincolo “ecologico e sociale”.
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Riccardo Santolini, dell’Università di Urbino, si concentra sulla rigidità dell’approccio ammnistrativo: si parla di “integrazione tra il soggetto acqua e quello natura” tradotti in normative distinte, che spesso non comunicano. Questo perché non tutte le professionalità competenti che dovrebbero approcciare la pianificazione comprendono la complessità dei fenomeni naturali. L’approccio mono-disciplinare ha prodotto l’attuale difficoltà nel sviluppare le sinergie richieste, non dall’Europa, ma dalla materialità del nostro presente. Si parla di resilienza e di difficoltà dell’ambiente naturale a ripristinare condizioni di equilibrio, ma siamo abituati a lavorare su oggetti dinamici, che si evolvono sotto la spinta di specifici drivers, interpretandoli come fissi. Abbiamo bisogno non di una consulenza ambientale o ingegneristica ma di un più complessivo sforzo del mondo universitario verso la formazione di una nuova professionalità, consapevole dell’importanza dell’aspetto funzionale degli ecosistemi. In questo modo, conclude Santolini, potremo calcolare il valore funzionale ed economico delle azioni che mettiamo in campo, esattamente come stanno tentando i progetti integrati a livello comunitario.
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Andrea Agapito Ludovici del WWF ricorda che la Direttiva Quadro sulle Acque prevede, all’art. 13, la partecipazione pubblica a tre livelli: informazione, consultazione, coinvolgimento. I meccanismi di partecipazione ci sono e sono sufficientemente approfonditi; nel nostro Paese ci sono i Contratti di Fiume per favorire la partecipazione nella pianificazione. Molti sono gli sforzi per vedere le connessioni tra le direttive, ma siamo di fronte ad una sfida molto più grande: sono 20 anni che non si fa pianificazione e dobbiamo inventarci una nuova governance di fronte alle sfide rilanciate dalla Conferenza di Parigi (adattamento ai cambiamenti climatici, in primis partendo dal ciclo delle acque). Alcune criticità che bloccano il coordinamento si osservano a livello di uffici e circolazione delle informazioni, soprattutto su quegli aspetti comuni alle direttive (es. l’ittiofauna: indicatori dello stato dei corpi idrici e le specie endemiche). Proposte di buon senso per superare questi conflitti: le discussioni tecniche e settoriali devono produrre effetti positivi.
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Andrea Minutolo, della Legambiente, sottolinea l’importanza del ruolo delle associazioni ambientaliste: coinvolte sia tra i portatori di interessi ma anche in rappresentanza dei cittadini. Sottolinea poi la centralità di un Piano che indirizzi le politiche e i vari attori coinvolti nello sfruttamento della risorsa idrica. Quello di cui si avverte la necessità è un cambio culturale: l’integrazione delle direttive deve produrre effetti non a livello accademico quanto pratico, economico, occupazionale, conoscitivo. Il rappresentante di Legambiente suggerisce infine di partire dal monitoraggio e dalla definizione degli ostacoli al raggiungimento dei comuni obiettivi in materia di consumo di suolo e rischio idrogeologico. Maggiore chiarezza sulle competenze e sui controlli; realizzare il coinvolgimento della cittadinanza (previsto dalle direttive) attraverso la formazione di un livello intermedio di figure professionali (piano comunale).
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Domenico Di Martino, della CGIL, spiega che come la CGIL rappresenti le esigenze del cittadino e del lavoratore, perché in ambito di “servizi” i due soggetti non sono scindibili. Dobbiamo collegare, spiega Domenico Di Martino, la ricerca scientifica alle problematiche reali, perché molte delle nostre leggi risalgono a diversi anni fa e la Legge 152 del 2006 (Norme in materia ambientale) non è ancora completata nella sua terza parte. I ritardi sono soprattutto il risultato dell’incompetenza nel tradurre in azioni concrete in difesa della natura e dell’acqua. La CGIL ha accolto con entusiasmo il discorso del riassetto complessivo del Piano di gestione delle acque ma non ha chiaro il ruolo dei distretti, il destino delle Autorità di Bacino o come si applicano le norme del Collegato Ambientale. Gli strumenti e gli studi scientifici ci sono e possono avere una ricaduta massima sull’occupazione. La ricetta della CGIL per affrontare le sfide del presente consiste in un serio intervento di formazione e di recupero: un’integrazione tra il vecchio e il nuovo sarà utile per recuperare anche alcune professionalità che si sono perse. Abbiamo indicato, conclude Di Martino, il percorso del Piano del lavoro: dobbiamo rendere partecipe al massimo e preventivamente il cittadino.
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Giuseppe Gisotti, Geologo e forestale, presidente della Società Italiana di Geologia Ambientale (SIGEA) afferma che l’ambito in cui ci muoviamo è quello della pianificazione. Uno dei fattori centrali è certamente il coinvolgimento del pubblico: tra i maggiori problemi che si hanno c’è il mancato coinvolgimento del pubblico (come sulle grandi opere) e la scarsa diffusione della cultura in Italia. Il ruolo delle associazioni è essenziale per colmare questo gap culturale. Termina il suo intervento ricordando quanto si possa imparare dalle opere idrauliche realizzate in antichità.
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Bruno Miccio, del Gruppo 183, affronta il tema della tavola rotonda costruendo un discorso attorno a tre concetti: potere, soldi e democrazia. Potere. Un passaggio in particolare- dalla Legge Galli al Codice Ambientale- è stato molto dibattuto: se l’acqua pubblica debba appartenere al demanio. Emblematica a alla tematica del “potere” è stato un avvenimento che ha scandito la c.d. “crisi greca”: uno dei diktat della Troika era il conferimento di tutti i fondi del demanio greco ad un fondo lussemburghese.
Il problema dei soldi e dell’economia del ciclo idrico: la Legge 129 del 63 “Piano Generale degli Acquedotti” ha posto i vincoli di derivazione, in cui le concessioni erano temporanee, e il vincolo sull’uso potabile che fino al 1963 non era prioritario. Quali sono oggi le procedure per discutere sulle derivazioni? chiede Miccio al pubblico. Democrazia: come Gruppo 183, continua Miccio, ci siamo “aggrappati” per lungo tempo all’Europa; la sensazione è che i tempi stiano cambiando. La partecipazione non è un optional; la lotta puntuale al piano della tariffa (ricorsi delle associazioni dei consumatori) è la dimostrazione di ciò. E poi il problema storico dell’Italia “il capitalismo senza capitali”. C’è stata una proliferazione di piani, ma senza coordinamento, senza risorse e senza un quadro della situazione reale italiana. Siamo, conclude Miccio, ad uno snodo centrale: che tipo di Paese andiamo a costruire nei prossimi 20 anni? I giovani dovrebbero lavorare e fare cose di cui l’Italia ha bisogno ora che è finita l’illusione che il libero mercato possa spontaneamente regolare le questioni di sfruttamento e gestione di risorse scarse come acqua e natura.
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Osvaldo Locasciulli, ecologo, suggerisce di cominciare ad utilizzare criteri diversi per la valutazione di impatto ambientale inserendo anche i criteri economici ed ecologici fusi insieme. Locasciulli propone tra i criteri di valutazione di incidenza la valutazione della funzionalità degli ecosistemi, che comparta anche la possibilità di cominciare a introdurre il pagamento di questi sistemi. La gente deve capire che le azioni sulla natura sono interventi che influiscono sull’economia di tutti. Ci sono tutta una serie di presupposti che noi possiamo trasmettere alla gente, ma la gente deve essere in grado di capire. Quando ci siamo trovati a discutere sul problema degli orsi e dei lupi ci siamo trovati a discutere con delle persone che qualche mese prima era venuta a scaricare con i trattori di fronte alla sede del parco i vitelli e i puledri morti, ammazzati dai lupi. Siamo riusciti a fargli capire che sono protetti, ma non è stato facile, è stato un percorso lungo che si deve percorrere se vogliamo applicare la democrazia.

Dimitar Uzunov, della Società Chlora, prende la parola in nome degli ecologi, l’unica categoria che non ha un album, anche se nel mondo del lavoro si sente la mancanza di una figura che sia capace di operare di queste tematiche, molto complesse. Nell’esercizio di questa professione spesso Uzunov si è trovato nella situazione assurda di dover spiegare a chi gli stava di fronte, sia pubblico che privato, che cosa voleva, per poi dirgli come si può intervenire. Ma non sono molti a conoscere la direttiva Habitat.

Angelo Martinelli, Arpa Lazio, evidenzia gli aspetti quantitativi, i numeri che mancano quando si fanno i piani. Un fatto che impedisce di fare i piani, quelli idrologici e soprattutto idrici. Tutte le grandezze derivanti dall’antropizzazione non le misuriamo, non si riesce a quantificarle in maniera adeguata. Questo ha una ricaduta nei rapporti alla CE sull’attuazione delle direttive Acqua e Natura perché contribuisce a dare dei giudizi incompleti ed inesatti.

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